lunedì 19 febbraio 2018

Ci hanno insegnato a piangere


Provo ad osservarmi e ad ascoltarmi quando piango. Ogni volta che lo faccio mi domando: “Perché piangi?” e le risposte sono sempre le stesse. Piango perché sono arrabbiata e perché sto male, di un dolore che spacca l’anima e il cuore.
Il pianto mi libera.
Il pianto mi mette in connessione con gli altri.
Il pianto mostra la mia vulnerabilità e fragilità.
Il pianto mi aiuta a conoscere le emozioni.
Ho capito che per me è facile accettare la felicità, frequente sperimentare la paura, alienante provare la tristezza e difficile gestire la rabbia.

La rabbia io la vivo e la tocco quotidianamente sia che mi trovi nel traffico sia che stia discutendo con una persona. La rabbia per me è qualcosa di incontrollabile, che molto spesso sfocia in pianto soprattutto quando sto discutendo con qualcuno che mi fa sentire subordinata, quando in una discussione non trovo spazio per argomentare e più in generale tutte le volte che mi sento schiacciata. In tutte queste occasioni la mia ira diventa lacrime e singhiozzi incontrollabili che arrivano improvvisamente, indipendentemente da chi ho di fronte, prendono il sopravvento e vengono letti dagli altri come debolezza. Molto spesso gli da la chiave di accesso per affondare ancora di più il colpo.

Sono trent’anni che piango di rabbia, che non la canalizzo e non la faccio diventare energia proficua e produttiva. Sono trent’anni che nelle discussioni non riesco mai a posizionarmi come vorrei. Sono sempre sbilanciata.
Mi vedo alle elementari quando un giorno la bambina con cui giocavo sempre mi ha detto “da oggi non gioco più con te, scelgo lei”. Ho pianto in classe di rabbia e non sono stata in grado di dirle “peggio per te, chi ci perde sei tu, stronza”. Sarebbe stato più costruttivo, liberatorio e meno doloroso.
Mi vedo alle superiori quando i miei mi dicevano che avevo sbagliato scuola, che avevo scelto male, che non era per me il liceo. Ho pianto di rabbia, perché volevo essere incoraggiata, amata e sostenuta nelle difficoltà. Avrei voluto dirgli ci sono, guardatemi ed invece per tutti i cinque anni ho dimostrato che potevo farcela. Ce l’ho fatta, ma se avessi dato voce alla mia rabbia le mie azioni avrebbero avuto sicuramente un altro sapore.
Tutte le volte che discuto con chi amo, con le persone a cui voglio bene e sono sfastidiata, la mia rabbia sale e piango. Le persone a volte si fermano perché provano pena, mentre altre continuano finché non mi riducono a nulla proprio perché gli porgo il fianco.
Tutte le volte che i miei figli non apprezzano quello che faccio per loro, che mi dicono “che schifo questa cosa che hai cucinato” oppure “tu non mi vuoi bene”, la rabbia vince, piango e do il peggio di me, insegnando loro che piangendo di rabbia si può far sentire in colpa l’altro, che è l’unico modo per  gestire questa emozione, per stoppare una discussione e per far sì che gli occhi dell’interlocutore si posino su di noi.

Se mi comporto così e, molte donne come me lo fanno, è perché l’ho visto fare, perché qualcuno prima di me l’ha fatto e me l’ha insegnato. A partire da quelle stupidissime protagoniste dei cartoni giapponesi anni ’90.
Io vedo mia figlia, ogni volta che è incazzata piange, di un pianto isterico. 
Mi spaventa la sua modalità perché è la stessa mia. Io vorrei, invece, che lei impari a dar voce alle sue emozioni, anche alla rabbia e a posizionarsi nelle relazioni in maniera paritaria.

La rabbia ha il suo linguaggio che va scoperto e comunicato. Non è mai troppo tardi per cominciare.
Albert Mehrabian sostiene che il 55% dei messaggi comunicativi è dedotto secondo il linguaggio del corpo: gesti, mimica facciale e posture.

Cosa comunica il mio corpo quando piango di rabbia?
Mi sono osservata e non mi sono capita. Tutta questa rabbia interna e il mio corpo che dice tutt’altro. Nel mio pianto di rabbia tendo a farmi più piccola, più esile di quello che sono. Mi chiudo, incrocio le braccia ed abbasso gli occhi dialogando con me stessa, dicendomi quello che vorrei dire ma non riesco.
Ho provato recentemente ad allargare le braccia, posandole sui fianchi, ad alzare lo sguardo e a tenere gli occhi aperti. Ho provato a prendermi il mio spazio ad occuparlo, a far capire che sono attenta nella discussione e che ho da dire qualcosa.
La mia voce quando piango di rabbia non è una voce: sono urla soffocate. Ho deciso che non serve urlare, che non serve lasciare appigli per scaardinarmi ancora. Voce ferma e spiegazioni. Le urla alimentano solo la rabbia e non portano alla risoluzione del conflitto.
E’ una fatica bestiale se per tutta la vita tu hai conosciuto il pianto per gestire la rabbia ed un conflitto. Fatichi perché non ti appartiene, perché l’altra modalità è più facile da mettere in pratica, ma è estremamente sconveniente per un solo e semplice motivo: ti ritroverai sempre in una condizione di sudditanza rispetto a chi hai di fronte.

Impariamo ad occupare il nostro spazio nel mondo, nelle discussioni, a catalizzare la rabbia verso forme costruttive e soprattutto insegniamo alle nostre figlie che devono essere pari, aumentiamo la loro autostima insegnandogli la funzione catartica e liberatrice del pianto, insegniamogli che le emozioni correttamente gestite aiutano a vivere meglio  e che la rabbia non va chiusa in un pianto ma gli va data la possibilità di parlare perché questo ci rende libere.




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